Non vorrei mai che si dimenticasse il significato della vita.
Ognuno ci dà il significato che vuole però nella ricchezza di così tanti temi trattati, in questo nuovo film di Paolo Sorrentino, vige la follia e l’animarsi di occhi disperati.
Quello che ho visto in Parthenope
Ho visto lacrime schiantarsi su guance sorridenti e screpolate dal sole, ho visto linee di corpi muoversi felici prima di lasciarsi andare ai demoni interiori, ho percepito i più segreti pensieri di un prete dal crocifisso d’oro.
Ho visto la spensieratezza di un bagno al mare, in acque limpide, sugli scogli illuminati da raggi cocenti. Ho visto la disperazione di una fusione di corpi davanti agli occhi di tutti, ma proprio tutti. Nessuno escluso. Ho visto morire la speranza, e quel pudore di donna calpestato in sentieri già tracciati che portano alla considerazione di donna che serve solo a procreare. Allo stesso tempo ho visto la donna ammaliatrice, di potere, che avvicina uomini, donne e pericoli, velleità e simboli religiosi. Una donna che dice di non aver paura di nessuno, ma la prima di cui ha paura è se stessa.
La protagonista è una donna che non accetta la sua ossessione per l’antropologia, perché non la capisce fino in fondo, allora sbraita con la testa per cercare risposte. Tra i vicoli, i libri e le carezze di estranei che la venerano per i suoi sinuosi tiri ad una sigaretta sempre accesa.
Napoli bella terra di malinconia, città parthenope, lei.
Tutto avviene a Napoli, tra la maledizione e la bellezza sconfinata. Tra il blu del cielo e della squadra di calcio osannata anche dagli stranieri. Non dimentico il rosso degli slip e il verde smeraldo dell’anello e la collana sfavillante, e il bianco candore di un figlio disturbato di cui non si ha ancora la certezza che esista davvero.
Bisogna riavvolgere il nastro e ascoltare con attenzione le parole di alcune canzoni che cullano momenti apicali di un film che “non sai mai cosa succede nella scena dopo”. Perché in un film di Sorrentino, non te lo puoi immaginare. Mai.
Il grottesco lascia spazio alla speranza, la scienza si concede alle coppe di champagne che rievocano il benessere sfrenato. Poi il seno che allatta un bambino di 7 anni, l’orologio costoso in cambio di un abbraccio. E il pianto disperato che rimbomba nei vicoli di una città dall’ecosistema a parte.
La bellezza che apre le porte a sconfinate ipotesi di riuscita poi maledettamente infrante dalla realtà incestuosa, e dalla colpa di aver ucciso. Perché in tutto c’è sempre un colpevole.
L’amore che si declina, scompare e riappare sempre diverso. L’amore è costante, anche solo se si tratta di una barca con le ruote, affollata da tifosi saltellanti in una strada deserta. L’amore sono i balconi che affacciano sul mare, le mattonelle colorate, i fiori che spuntano dai marciapiedi. L’amore è il costume intriso di profumo, gli abbracci che non sai mai dove vanno a finire. Persino la disperazione è amore. L’amore che mette in primo piano la salvezza, o forse no, sempre amore è.
Silenzio, nei più belli è mistero, nei brutti è fallimento. John Cheever